
L’amore per la lingua italiana
Per la realizzazione di questo romanzo, nessuna parola italiana è stata sacrificata in favore di una straniera! Amo profondamente la mia lingua soprattutto per via della sua storia legata al latino e alla nostra letteratura. E altrettanto profondamente odio che moltissimi termini inglesi siano ormai entrati così tanto nel linguaggio comune da essere usati perfino quando esista il corrispettivo nella madrelingua. La propria lingua è un patrimonio culturale e storico di immenso valore che deve essere salvaguardato. Per questo sono molto attenta anche ai dialetti e nei miei libri di storia locale (vedi la collana “Una volta anticamente”) adoro utilizzare i termini dialettali, anche in virtù della loro capacità di ricreare la giusta atmosfera.
Dunque per “L’antica fiamma” mi prefissai un nobile intento: non utilizzare parole inglesi (o comunque straniere) se non quando espressamente richiesto dalle citazioni (nomi di personaggi e titoli di libri e documenti) o per il confronto etimologico tra le diverse lingue. Mi è sembrato corretto dimostrare lo stesso rispetto non solo nei confronti della mia madrelingua ma anche nei confronti delle altre. Nel mio intento, mi accorsi subito di una cosa: che l’ambito in cui sia più complesso evitare termini inglesi sia quello tecnologico… del quale (mio malgrado, essendo io un mezzo disastro con la tecnologia) purtroppo faccio grande uso per lavoro. Sebbene i miei libri nascano prima sulla carta che sul pc e continui imperterrita a scrivere a mano gli appunti (la mia stanza è sempre letteralmente sommersa di foglietti ed ogni mio libro ha avuto il suo quaderno di lavorazione scritto a mano) il documento va prima o poi elaborato al computer e trasmesso come file alla casa editrice e così pure alla tipografia. E non parliamo poi della macchina fotografica, con tutti i suoi accessori! Dunque dove ho potuto, nel romanzo, ho sostituito la parola “computer” con altro, i files sono diventati documenti, internet è diventata la rete o il mare. La parola computer appare una sola volta ma proprio per merito di un espediente permesso dall’etimologia, mia passione quasi patologica. E’ stata una faticaccia, non lo nascondo! Ma andava fatto, soprattutto in un libro in cui si celebra il Padre della lingua italiana, Dante Alighieri.
Gli pseudibiblion
Quando affermai di aver preso spunto da “Il nome della rosa” di Umbero Eco per l’idea dei manoscritti ritrovati su cui costruire la storia, ritenendolo un escamotage perfetto per far credere al lettore di leggere una storia vera, ero consapevole che Eco non inventò nulla di nuovo. Già nel 1491 quando Tritemio (l’Abate Nero) uno dei più grandi occultisti della storia e Maestro di Agrippa, cominciò a compilare la cronaca di Sponheim (che gli valse molti anni di ricerca e lavoro) formulò la tecnica del “falso storico”. Trovandosi di fronte all’impossibilità di reperire certi testi antichi, se li inventò di sana pianta. Ecco dunque che fece saltar fuori aneddoti mai avvenuti e libri mai scritti, esistenti solo nella sua fervida fantasia, per porre delle basi sotto la sua opera. E, per quanto inventate, si rivelarono solide giacché lo condussero fin dove giunse. Basti dire che la sua opera più famosa la “Steganographia” rivela la sua ricerca di un sapere e di una lingua universali, e per questo sperimentava anche la magia. Sebbene la mia coscienza non mi permetta di inventare documenti facendoli passare per reali così da avvallare le mie teorie (laddove abbiano la pretesa di essere storiografiche), come ho già detto mi sono divertita a porre qua e là dei libri inventati. Oltre a quelli su cui si fonda l’intera trama.Stuzzica la mia immaginazione una simile invenzione letteraria, perché sono curiosa per natura e quando leggo una storia, vado sempre a cercarne altre mille dietro ogni dettaglio storico. E fare ricerche su una cosa che non esiste, o meglio, che esiste solo nella mente di un uomo, è un’avventura infinita. E’ logico che vi sia nel mio romanzo una parte, il nocciolo poi della storia, assolutamente inventata ma retta da fermi capisaldi tutti realmente storici, dall’anno di costruzione di un capitello della cattedrale di Casale alla battaglia di Pavia tra Francia e Impero. Mi sono solamente limitata a inventare una finzione – con tanto di misteri e complotti – laddove le lacune della Storia me lo hanno permesso, senza stravolgere documenti già esistenti e senza inventarmene di miei. Reputo troppo semplice e menzognero inventare un passato che non è esistito stravolgendo la realtà, mentre invece è assai avvincente cercare un modo per far intrecciare la Storia con l’immaginazione.“Il nome della rosa” e le ricerche per “L’antica fiamma” dunque per me furolo solo la soglia per accedere al mondo degli pseudobiblia, dal greco falso + libro. Difatti uno pseudobiblion è un libro immaginario citato (limitatamente al titolo o per mezzo di alcuni estratti) come vero in un’opera letteraria. Il caso più famoso credo sia il Necronomicon di Lovercraft. Ci sono anche studiosi e scrittori che inseriscono nella categoria i libri perduti o andati distrutti, quelli assai rari o irreperibili. Curiosamente fu proprio il Rinascimento che vide l’affermarsi degli pseudobiblia. Uno dei casi più importanti fu il manoscritto dell’arcivescovo Turpino, opera di finzione alla base a sua volta di un’altra opera di finzione sulle gesta di Rinaldo, il “famoso Arnaldo”, che Luigi Pulci afferma essere di ispirazione per il suo Morgante. Perfino autori del calibro di Boiardo e dell’Ariosto affermarono di aver preso ispirazione dal manoscritto di Turpino.Una curiosità: uno degli pseudobiblia da me inventati presenti nel romanzo ha come autore un anagramma che rivela il nome di un vero autore… a voi trovarlo!
Un falsario letterario
Onestamente non so come mi sia venuta l’idea di usare il diario come stile narrativo siccome non fu mai tra le mie corde (pur avendo sempre tenuto un mio diario personale), probabilmente per avvicinare maggiormente protagonista e lettore. Ovviamente la scelta del diario in un contesto rinascimentale aumentava moltissimo la difficoltà di stesura dovendo utilizzare un lessico attendibile per l’epoca. Questo comportò la lettura di documenti cinquecenteschi e lo studio etimologico di ogni parola utilizzata così da escludere quelle non ancora “inventate” e scrivere le altre nella versione antica (volgare) o perfino latina. Marginalmente anche lo studio della lingua latina e di quella greca antica fu necessario.
Nel cercare di distinguere quanto più possibile i diari, così che risultassero scritti da persone diverse, ho ovviamente puntato molto sul carattere dei singoli personaggi. Il diario di Padre Solemastro è chiaramente quello di un prete, con i vari riferimenti alle preghiere (usate anche come cure a quel tempo). Quello di Barbero ha riferimenti alla sfera legale e rivela un animo per nulla incline ai voli pindarici della mente (ci penserà poi il mistero di Issogne a trasformarlo in un timorato di Dio). Lo stile di Bianca è quello più ricercato, più emotivo, sofisticato, influenzato da quella condanna che trasforma l’essere comune in genio.Molto più difficile fu scrivere le lettere dell’Agrippa e di Grumello, avendo questi lasciato degli scritti reali. Fu assolutamente necessario leggere il “De occulta philosophia” e alcune lettere di Agrippa e ovviamente la Cronicha del Grumello (utilizzata anche per ricostruire le vicende politiche e cittadine). Studiai il loro stile e tono così da evidenziare il determinato modo di scrivere ogni parola ma anche per porre in luce pensieri ed opinioni. Insomma dovetti smantellare le loro opere fino a ridurle come pezzi di un mosaico per costruire un disegno nuovo che sembrasse fatto da loro. Per esempio Agrippa, per quanto fosse uomo credente, fu a lungo giudicato eretico ed ebbe molti problemi con la Chiesa, nelle sue lettere giunte fino a noi non sono pochi i riferimenti critici agli usi di preti e sacerdoti. Elementi che non ho mancato di inserire nelle sue lettere a Bianca Maria.Per Grumello dovetti leggere molto attentamente la sua Cronicha e costruire un dizionario italiano/grumellese, se così si può dire! Ma in verità fu un lavoro necessario per tutti i personaggi, in modo da scrivere determinati termini sempre allo stesso modo e personalizzare i diari anche dal punto di vista lessicale. Questa esperienza da falsario letterario fu assai ardua ma veramente entusiasmante!
Etimologia
Questa è una delle cose su cui più amo fare ricerca. Mi ha sempre affascinato che ogni singola parola componente una storia, ha a sua volta una storia da narrare. Come già affermato, lo studio etimologico è fondamentale quando si scrive un romanzo storico in prima persona, ancor più se è una storia che riunisce personaggi di diversa cultura. Bianca si trova difatti a interagire con persone di diversa nazionalità: c’è l’ospite straniero che giunge dalla Valacchia (Romania), poi lo spangolo Antonio De Leyva e il tedesco Cornelius Agrippa, per citarne tre. Ci sono una paio di riferimenti di Maria Paleologa a vecchi testi di Francia. Il latino fu ufficialmente la lingua europea (a suo tempo molto più riconosciuta di quanto lo sia oggi l’inglese) per secoli interi ma subì delle variazioni che diedero origine alle varie lingue romanze (tra cui il nostro italino) quindi al tempo di Bianca la situazione linguistica non era come quella odierna ma sarebbe errato pensare che si parlasse esclusivamente latino. Oggi si considera proprio Dante Alighieri come creatore della lingua italiana. La storia della lingua latina è affascinante come la lingua stessa. Con il Sacro Romano Impero il latino, nato come lingua romana, si diffuse a macchia d’olio ma col tempo si distinse tra latino scritto (riservato agli atti notarili, alla scienza, alla filosofia, alla letteratura) e latino parlato (il vulgo, il volgare) che assunse forme diverse a seconda della zona, e fu influenzato da lingue preesistenti. A partire dal III secolo Roma conobbe una certa crisi, il suo potere sull’Europa si affievolì, giunsero le invasioni barbariche che influenzarono non poco ogni aspetto, lingua compresa. E dunque le varie parlate volgari presero a evolversi fino a diventare delle vere e proprie lingue, le romanze (o neolatine). Nacquero dunque la langue d’oil, la d’oc, l’occitano, il franco provenzale in Francia; il galiziano, il castigliano, l’aragonese nella Penisola Iberica; nell’Italia del Nord si ebbero le lingue gallo-romanze come il piemontese e il lombardo. E così via. Già nell’anno mille la situazione linguistica è ben definita. Poi parallelamente al latino e alle romanze, ci fu la lingua germanica che interessò l’Europa più nordica e quella orientale. Sulla base di ciò ho costruito il lessico dei 4 diari ritrovati.Essendo un’amante dell’etimologia ho cercato, sotto vari aspetti, di palesare questa mia passione nel romanzo. Le parole, di per sé, sono un soggetto fondamentale di questa storia. La stessa tormentata ricerca di Bianca si fonda su una parola, quella per definire la propria natura. Ho sempre considerato le parole come degli incantesimi, capaci di evocare qualsiasi emozione, ricordo, suggestione; nel romanzo ho cercato di renderle qualcosa di tangibile, di usarle anche per il loro suono e forma. Quindi scoprire (ancor prima che mi venisse alla mente l’idea del libro) il castello di Issogne, il castello dalle pagine fatte di pietra, dalle parole scolpite e palpabili, fu un’emozione indescrivibile per me. Per ciò la presenza di Barbero attraverso un messaggio inciso sul muro, ancora oggi tangibile, non fu un caso ma assolutamente voluta.
Il codice segreto
La passione di cui sopra e quella per i misteri mi aveva portato a inserire nella prima stesura anche un legame con il noto e oscuro Manoscritto Voynich, ritrovato tra i libri nascosti del padre di Bianca (che inizialmente erano in numero assai maggiore) e l’inserimento nel diario di Bianca di alcuni scritti presentati in un codice segreto… su cui il narratore dell’ultimo diario ed il lettore avrebbero dovuto indagare cogliendo indizi nel corso della storia. Purtroppo per motivi di spazio sono stata costretta ad eliminare questa parte, ritenendola non essenziale ai fini della trama ma solo un approfondimento del carattere oscuro di Bianca Maria.
La moda spagnola
I lettori più attenti noteranno nel romanzo un preponderante uso del voi (del tu nel caso di legami veramente stretti), come richiesto all’epoca, mentre l’uso raro del lei è legato a personaggi spagnoli, come il Capitano De Leyva.
Nel latino esisteva una sola forma allocutiva (dal latino adloqui, ossia “rivolgere la parola a qualcuno”) il tu. Difatti gli antichi Romani davano del tu all’amico più intimo come all’imperatore. Solo dal III secolo d.C. si cominciò a riservare il voi (Vos) all’imperatore, il quale parlava di sé stesso con il noi di maestà (pluralis maiestatis). Da qui l’uso del voi prese piede fino a riguardare l’intero Medioevo. Inoltre tra Duecento e Quattricento era tipico arricchire il voi, quando riferito a personaggi famosi, nobili e artisti, con titoli quali Vosra eccellenza, Vostra Signoria, Vostra Bontà. Fu l’Umanesimo, col suo ritorno alla cultura antica, a ripristinare l’uso del tu. L’uso del lei si fa risalire (secondo le fonti a noi giunte) al Quattrocento per mano spagnola, probabilmente per l’Inquisizione omonima, senza contare poi nel secolo successivo la reggenza di Carlo V d’Aburgo (che fa da sfondo politico al romanzo) e la dominazione spagnola (a seguito della pace di Cateau-Cambrésis, nel 1559). Ma solo tra Cinquecento e Seicento il suo uso si diffuse gradualmente al punto da sostituire il voi. Questa trasformazione si fa risalire appunto all’influsso dello spagnolo usted (ossia il lei italiano, mentre il voi è tradotto con ustedes). Tuttavia tra Settecento e Ottocento si faticò ad ammettere che il lei fosse frutto di un influsso straniero e fino al primo Novecento si usarono indistintamente sia il lei che il voi. Fu poi il regime fascista, nel 1938, a proibire ufficialmente il lei per ripristinare esclusivamente il voi. Si ritiene che sia per questo motivo che a seguito del secondo dopoguerra si perse l’uso del voi, considerata un’imposizione fascista, sebbene abbia avuto un poco più più “resistenza” nelle regione meridionali.